Storia di Milo, il gatto che non sapeva saltare

Costanza Rizzacasa d’Orsogna, giornalista del «Corriere della Sera», ha scritto un libro edito da Guanda sulla storia del suo gatto: «Storia di Milo, il gatto che non sapeva saltare».

Qui sotto l’autrice anticipa per i lettori di «Vanity Fair» quello che troverete nel suo libro.

23 Ottobre 2013. «A volte di notte mi sveglio e piango, temendo che lui possa morire». È uno delle migliaia di tweet che in questi cinque anni ho scritto su Milo. Alcuni mesi prima, una sera di maggio, postando una foto che lo ritraeva microscopico dentro un trasportino, su un calzino verde ripiegato in tre, avevo scritto: «Allora, che faccio, lo adotto? Pesa 400 grammi e ha tre settimane».

È iniziata così la mia storia con Milo, un gattino tutto nero trovato da mio fratello in un’aiuola del centro di Milano cinque anni e mezzo fa. O meglio, è stato Milo a farsi trovare, catapultandosi proprio sui suoi piedi in una sera di temporale, e strillando per attirarne l’attenzione. Era già un terremoto allora, e così tenace. Determinato ad essere salvato, e così fu. Poco dopo, al primo vaccino, scoprii che Milo aveva un problema. Una sindrome del sistema nervoso chiamata ipoplasia cerebellare, che lo costringe a camminare a zig zag. Milo non sa saltare, inciampa su se stesso e cade mille volte al giorno. Due volte, cercando di scendere dal letto, ha rotto un dente.

È stato forse per questo, come sfogo in un momento difficile della nostra vita insieme, che ho iniziato a raccontare sui social la storia di Milo, postando anche i suoi video, molto buffi, che oggi fanno migliaia di visualizzazioni. Milo che cade dentro il piatto, che cerca di acciuffare un moscerino ma ricade all’indietro. Milo che insegue un punto luminoso, parte degli esercizi che facciamo per migliorare la sua agilità. E poiché Milo si feriva in continuazione, e se uscivo di casa aveva delle crisi convulsive, per i suoi primi tre anni non l’ho lasciato un giorno, sacrificando anche il lavoro. Finché ho capito che rischiavo di far del male a entrambi, che i figli, anche quelli pelosi, bisogna lasciarli andare e se si rompono, pazienza, si riattaccano. Ho capito che Milo aveva tanta voglia di natura, che non potendo saltare sul davanzale o andare sul terrazzo come tutti gli altri gatti, in casa si sentiva prigioniero.

Così ho preso a portarlo con me, e oggi viaggiamo insieme dappertutto, per lavoro o svago. Milo adora il treno, prende l’aereo come un habituè, e se a casa i moscerini gli incutono terrore, l’anno scorso, in vacanza alle Eolie, per una strana proporzionalità inversa ha attaccato una mucca. Quest’anno siamo andati anche a Linosa, l’isola delle Pelagie dove ho trascorso parte della mia infanzia, e Milo ha fatto otto ore di nave all’andata e otto al ritorno senza un miao. Tanto che quando ho chiamato la biglietteria per prenotare il rientro, mi sono confusa e ho detto: «Avete una cabina con gatto?». Volevo dire “con bagno”, l’impiegato ha riso per mezz’ora.

Col tempo, la gente ha preso a scriverci. Che i raccontini social sul piccolo Milo scandivano la loro quotidianità, che è bello, in un mondo buio, tornare a casa e leggere le avventure di un micetto che con la sua tenacia dà speranza. Ho capito che Milo era molto più di un gatto. Che era di tutti, e non più soltanto mio. Che poteva diventare una metafora per chi, bambino o adulto, si sentisse diverso. Un trovatello, nato in circostanze travagliate, che è diventato un principino.

Così ho provato a scrivere una favola, una storia d’integrazione sulla disabilità e il diverso, il nero  .. Il resto dell’articolo su vanityfair.it