Dove c’è un gatto, c’è casa
Esiste un detto inglese, secondo il quale un gatto è in grado di trasformare una house in una home (non è facile da rendere in italiano, forse potremmo tradurlo con “Un gatto trasforma un’abitazione in una casa“). Il significato mi è sempre stato chiaro, specie da quando, quasi quattro anni fa, Artù è venuto a vivere con noi, col suo carico di fusa e zanne e peli infestanti (soprattutto peli).
Ma è da quando Davide ha iniziato a parlare che ho realizzato davvero la profonda verità di quella massima buona per le calamite da frigo. Quando rientriamo da una passeggiata, dall’asilo, o da una visita ai nonni; quando è stanco e non ha voglia di uscire; quando si fa buio, oppure piove; quando la luna splende sui tetti, mio figlio chiede, semplicemente, di tornare (o di restare)
a casartù.
Nessuno glielo ha mai suggerito. Forse nessuno di noi adulti ci avrebbe mai pensato, a dire il vero. Ma la sua casa, in un certo senso, è il nostro gatto. Anche se dorme quasi tutto il giorno, e spesso non ha voglia di giocare. Anche se scappa a nascondersi quando lui e sua sorella giocano troppo rumorosamente. Anche se è una fiera, facile alla zampata e avvezza al morso.
Artù è a casa e ci aspetta, tutti i giorni. Di più, Artù è casa. La nostra casa di ciccia e di pelo.
E ai miei figli non posso che augurare di avere sempre, in qualche posto del mondo, una casartù a cui fare ritorno quando il buio si fa più fitto e la tempesta impazza.