Non dite: il gatto ed io. Dite: il gatto è Dio. La sua superiorità è talmente evidente che non c’è bisogno di dimostrarla. È più agile, flessuoso, morbido, elegante di qualunque altro animale che si aggiri sulla terra o, come nel caso di molti umani, che ci strisci.
Ma le sue qualità fisiche sono soltanto il riflesso di quelle intellettuali e morali. La saggezza atavica e ancestrale del gatto, le sue facoltà divinatorie, il suo sguardo che si spalanca su abissi di metafisica profondità ne fanno l’essere più sapiente del creato. Nulla è ignoto al gatto, nulla può essergli celato. Egli sa. Sa come va (e dove) il mondo, sa cosa ci aspetta per averlo già vissuto nelle sue innumerevoli vite, sa come devono essere impostate le sue relazioni con gli altri esseri viventi, in primo luogo quelle con l’uomo, e sa come siamo molto meglio di quanto mai lo sapremo noi. Niente lo stupisce perché tutto conosce.
Proprio per questo, il gatto non è «buono», nel senso ingenuo e appiccicaticcio che attribuiamo alla parola. Non crede ai buoni sentimenti, al «wishful thinking», che lui traduce sempre e soltanto con «pia illusione», alle generose utopie e alle provvide palingenesi, in generale alle magnifiche sorti e progressive. Il gatto è troppo intelligente per avere davvero fiducia nel progresso. Sa che la natura non cambia, l’uomo nemmeno, e quanto a lui cambiare non può, essendo già perfetto. Sa che la pecora non giacerà mai con il lupo e che il topino appena catturato, con tutta la buona volontà (o anche senza) dovrà fare una brutta fine. Non è cinismo: è solo realismo.
Proprio perché cosciente di questa sua superiorità, è paradossale come il gatto abbia deciso di condividere la sua vita con noi, in un rapporto squilibrato dove l’uomo cerca il gatto e il gatto l’uomo, ma mentre per il primo trovare il secondo è indispensabile, perché senza gatti la vita sarebbe un errore, per il secondo il primo è un optional. E tuttavia, il gatto acconsente a scendere di qualche gradino nella scala dell’evoluzione e a relazionarsi con quel goffo bipede che potrà forse educare; portare al suo livello, certamente no. Così il gatto, pur con la prudenza che gli è propria e il ritegno di chi non si svela troppo, acconsente ad avere una storia con noi, a concederci i ritagli del suo tempo prezioso, a farsi toccare, coccolare, carezzare, a fare le fusa, a dividere una casa, perfino a divertirci divertendosi. Ma qui, attenzione: quando il gatto fa il buffone è una sua scelta, non una nostra imposizione. Il gatto non ride né fa ridere a comando. Accetta il giochino che l’umano gli offre speranzoso che sia di suo gradimento, ma quando si stufa il regalo torna a essere un insulso pezzo di stoffa, che solo per un attimo è stato nobilitato a preda e degnato della sua attenzione.
Utilitarismo? Certo. Però da entrambe le parti. Il gatto fu «addomesticato», parola orrenda e nel suo caso pure imprecisa, molto dopo il cane. Evidente il perché: il cane serviva all’uomo cacciatore e pastore, il gatto a quello agricoltore, perché mangia i topi che mangiano le scorte di cereali così faticosamente accumulate. Fin qui, il rapporto sarebbe perfettamente paritetico e, aggiungiamo, «freddo»: un matrimonio d’interesse, non d’amore. Ma subito l’uomo capisce che il gatto è qualcosa d’altro e di più che un sicario tariffato, un cacciatore a pagamento. Capisce che è un essere meraviglioso che non si limita a sbarazzarlo dei roditori, ma gli migliora la vita. Sempre secondo le sue regole, certo, non secondo le nostre […].
Così, è ora di finirla di pensare che fra noi insulsi bipedi e «il capolavoro della natura» (Leonardo da Vinci docet,uno che di capolavori si intendeva) possa esistere un rapporto paritario. L’unica relazione possibile fra uomo e gatto non può che consistere nella totale sottomissione del primo al secondo in una relazione necessariamente asimmetrica, da dominato a dominatore, da inferiore a superiore, da servo a signore. Il gatto non ha padroni: è il padrone. In primo luogo, di sé stesso. La sua indipendenza è il suo bene più prezioso, quindi deve restare assoluta e incondizionata. Ogni rapporto con lui che non parta da questa considerazione è destinato a fallire. Non si può addomesticare un gatto. Si può solo sperare che sia lui ad addomesticare noi.
fonte: www.lastampa.it
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