I gatti, indipendenti ed individualisti, appartengono ad una razza che non si è fatta addomesticare dall’uomo, come è accaduto al cane, ma lo hanno fatto da loro stessi, concedendo agli umani il beneficio della loro presenza.
Con la nascita dell’agricoltura, avvenuta circa 10.000 anni fa in Mesopotamia, i gatti appartenenti alla razza Felis silvestri lybica (gatti selvatici africani) trovarono conveniente avvicinarsi agli insediamenti umani, per una reciproca utilità: mangiavano i roditori che si cibavano dei prodotti agricoli. Iniziò così la lunga amicizia tra uomini e gatti, ma la loro funzione di animali da compagnia si sviluppò molto più tardi, probabilmente in Egitto.
In un lasso di tempo estremamente lungo, compreso all’incirca tra il 4.000 e il 2.000 aC, i gatti si trasformarono da utili cacciatori di roditori nei granai reali, ad animali “da salotto” simbolo di fertilità, e per questo spesso associati a figure femminili.
Alcuni ricercatori dell’università di Lovanio, in Belgio, hanno condotto una ricerca sul DNA di oltre 350 gatti vissuti in un lasso di tempo di circa 9000 anni, dalla lontana epoca mesolitica al 20° secolo, per confrontarlo con quello di 28 gatti selvatici di oggi. La comparazione rivela che ci sono poche differenze genetiche tra i gatti addomesticati e quelli selvatici, perché i primi si sono spesso incrociati con i secondi, consentendo alla razza di mantenere i caratteri originali. Una delle poche mutazioni riguarda il caratteristico mantello “tabby” (quello con le strisce ben distinte), che comparve per la prima volta solo nel Medioevo – quando i gatti furono anche perseguitati dai Cristiani come veicoli per la peste – prima in Asia e poi in Europa e in Africa. Le caratteristiche fisiologiche e comportamentali dei gatti non si sono quindi alterate in modo significativo nel corso dei millenni, come invece è accaduto, ad esempio, ai cani.
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